LA COMPAGNIA DEL FARDELLO
IKARIS
Il sole tramontava su Callam, tingendo il cielo di arancione e rosso. Colori adatti per un dragonborn come me. Guidavo i miei allievi attraverso le strade affollate del porto, respirando l’aria salmastra e il profumo di pesce che si mescolava ai fumi delle taverne. Questa era la vita reale, non quella merda raffinata che insegnavano nelle accademie di magia.
«Sensei, dove stiamo andando?» chiese Miguel.
Non mi voltai nemmeno. Il ragazzo era il migliore del gruppo, ma doveva ancora imparare a non fare domande stupide.
«A bere. Oggi avete combattuto bene. Il Cobra Kai non è solo sudore e sangue – è anche saper celebrare le vittorie.»
«Ma il sole sta calando, sensei,» intervenne Falco, con quella sua voce eternamente incerta. «Non dovremmo tornare al dojo per l’allenamento serale?»
Mi fermai di colpo, girandomi per fissarli uno per uno. Falco, Tori, Pasticcio e Miguel – ognuno di loro aveva potenziale, ma diamine, quanto avevano ancora da imparare.
«La vita è l’allenamento più duro, ragazzo,» dissi, trattenendo l’impulso di sbuffare fumo dalle narici. «E oggi imparerete a non fare domande stupide quando il vostro sensei vi offre da bere.»
Ci incamminammo verso il Rusty Anchor, la mia taverna preferita. Non era elegante, ma era autentica. Proprio come me. Spinsi la porta con decisione, lasciando che il familiare aroma di birra, sudore e fumo di legna mi avvolgesse. Questo era il mio tipo di posto.
«Ecco, questo è un posto per guerrieri,» annunciai, dirigendomi verso un tavolo vicino al camino.
Notai distrattamente un mezz’elfo dalla pelle bluastra seduto in un angolo. Era coperto da una sciarpa e sembrava fuori posto come un coniglio in un nido di vipere. Ma non era affar mio.
Brent, il proprietario nano, si avvicinò con la sua solita energia chiassosa.
«Ikaris! Che onore ricevere il famoso maestro del Cobra Kai e i suoi cuccioli!»
«Brent,» annuii. «Cinque birre e qualcosa da mangiare. Questi ragazzi hanno bisogno di recuperare le forze.»
Mentre i boccali arrivavano, Miguel iniziò a vantarsi del suo nuovo calcio circolare, solo per essere subito zittito da Tori. Tipico. Questi ragazzi avevano ancora tanto da imparare sulla vita quanto sulle arti marziali.
«Un vero Cobra non si vanta delle vittorie facili e non si lamenta delle sconfitte. Si rialza e colpisce più forte la prossima volta.»
«Colpisci per primo, colpisci forte, nessuna pietà!» gridarono i miei allievi all’unisono.
Alzai il mio boccale in un brindisi. «Al Cobra Kai, e a voi, che un giorno potreste non fare così schifo.»
Fu allora che la porta si spalancò, ed entrò quella che sembrava una montagna di pelliccia bianca e bronzo. Un leonin con un’armatura che avrebbe fatto sembrare elegante un carro armato, e uno sguardo così pieno di giudizio che sembrava uscito dal tribunale degli dei.
«Amici,» tuonò, come se chiunque in questa taverna fosse suo amico, «non posso restare in silenzio mentre vi abbandonate a questi vizi. L’alcol è una strada che conduce solo alla rovina e alla perdizione dell’anima!»
Oh, per l’amor di… Proprio quello che ci voleva per rovinare una bella serata. Un predicatore moralistico con la pelliccia piena di superiorità.
«Ecco, ragazzi,» dissi, abbastanza forte perché il felino sentisse. «Questo è esattamente l’opposto di come ci si dovrebbe comportare in un posto come questo.»
Il leonin continuò il suo sermone, impassibile. Era come se credesse che le sue parole fossero doni divini che dovevamo ringraziare di ricevere.
Sospirai, posai il boccale e mi alzai lentamente. Qualcuno doveva insegnare a questo gattone le buone maniere.
«Sentimi bene, gattone,» dissi avvicinandomi, sentendo le mie scaglie riscaldarsi per l’irritazione. «Ognuno qui ha il diritto di rilassarsi come preferisce dopo una giornata di lavoro. Se non ti piace, la porta è proprio dietro di te.»
I suoi occhi ambrati mi scrutarono con intensità. «Il nome è Geeno, campione del grande Horauthin, dio della giustizia. E non temo di affrontare coloro che predicano la via della debolezza.»
La via della debolezza? Mi stava prendendo per il culo? Stavo per mostrargli quale fosse davvero la via della debolezza, preferibilmente con un pugno ben assestato, quando il mezz’elfo dalla pelle blu si fece avanti, togliendosi la sciarpa.
«Forse,» disse con una voce sorprendentemente ferma, «c’è spazio per entrambe le visioni in questa taverna.»
Lo guardai irritato. Un pacifista. Un altro predicatore, ma con un diverso sermone. Misi le mani sui fianchi, pronto a dire a entrambi di farsi gli affari loro, ma qualcosa negli occhi del mezz’elfo mi fermò. C’era intelligenza lì. E qualcos’altro, qualcosa che non riuscivo a identificare ma che mi sembrava… familiare.
GEENO
Horauthin mi guidava. Sentivo il suo spirito di giustizia fluire attraverso di me mentre varcavo la soglia di quell’antro di perdizione chiamato “The Rusty Anchor”. L’odore di alcol colpì le mie narici come un presagio di corruzione, e vidi anime smarrite che affogavano i loro dolori e le loro responsabilità in liquidi velenosi.
Non potevo restare in silenzio. Il mio giuramento al grande Horauthin me lo impediva.
«Amici,» pronunciai, lasciando che la mia voce risuonasse chiara come il richiamo di una tromba di battaglia, «non posso restare in silenzio mentre vi abbandonate a questi vizi. L’alcol è una strada che conduce solo alla rovina e alla perdizione dell’anima!»
Un silenzio calò sulla taverna. Alcuni abbassarono lo sguardo, la loro coscienza pungolata dalle mie parole. Altri mi fissarono con occhi offesi o divertiti. Ma la verità non teme l’accoglienza che riceve. Horauthin insegna che è il messaggio a contare, non la reazione del pubblico.
«Il consumo di queste sostanze offusca la mente e indebolisce lo spirito!» continuai. «Come potete servire la giustizia e proteggere i deboli se siete preda dei vostri stessi vizi?»
Fu allora che notai il dragonborn dalle scaglie dorate. Sedeva con un gruppo di giovani, chiaramente suoi discepoli, e dalla sua espressione capii subito che era uno di quei maestri che predicavano un cammino di forza senza disciplina morale. Un guerriero senza codice, pericoloso come una spada senza elsa.
Si alzò e si avvicinò a me con un’andatura arrogante che conoscevo fin troppo bene. Era l’andatura di chi confonde la forza con la ragione.
«Sentimi bene, gattone,» disse con tono sprezzante. «Ognuno qui ha il diritto di rilassarsi come preferisce dopo una giornata di lavoro. Se non ti piace, la porta è proprio dietro di te.»
Il suo alito sapeva di birra e le sue parole erano pesanti di presunzione. Mantenni la mia compostezza, ricordando gli insegnamenti di Horauthin sulla pazienza di fronte all’ignoranza.
«Il nome è Geeno, campione del grande Horauthin, dio della giustizia. E non temo di affrontare coloro che predicano la via della debolezza.»
Lo vidi irrigidirsi, le sue scaglie che sembravano catturare più luce mentre la rabbia montava dentro di lui. La mia mano scivolò istintivamente verso l’elsa della mia lancia, non per timore, ma per preparazione. La violenza è l’ultimo rifugio dell’incompetente, ma è anche lo strumento con cui spesso si deve proteggere la verità.
Fu in quel momento che un terzo si unì alla nostra discussione. Un mezz’elfo dalla pelle bluastra e gli occhi brillanti come stelle invernali. Si tolse una sciarpa che gli copriva il viso, e parlò con la voce misurata di un diplomatico o di uno studioso.
«Forse c’è spazio per entrambe le visioni in questa taverna. La moderazione è una virtù tanto quanto la temperanza. Non è il boccale a definire l’uomo, ma come l’uomo gestisce ciò che il boccale contiene.»
Poi si rivolse al dragonborn con lo stesso tono pacato. «E a volte, anche i sermoni più inopportuni nascondono verità che meritano di essere ascoltate.»
Osservai attentamente il mezz’elfo. Non era un guerriero, almeno non nel modo tradizionale. Ma c’era qualcosa nel modo in cui si teneva, in equilibrio perfetto, che suggeriva capacità nascoste. I suoi occhi contenevano saggezza e, ancora più importante, compassione. Forse era uno studioso di Arkanum – la città dei maghi non era troppo lontana, e un sylph sarebbe stato attratto dai suoi venti arcani.
Sentii la presenza di Horauthin calmarsi dentro di me, come una tempesta che si attenua. Forse, come suggeriva questo straniero, c’era un momento per predicare e un momento per ascoltare. E forse persino un campione della giustizia poteva imparare qualcosa da un luogo come questo.
ASTERION
I miei occhi si muovevano tra le pagine del libro di astromanzia e il dragonborn dorato che era appena entrato nel Rusty Anchor. Non era difficile riconoscerlo – Ikaris, maestro del dojo Cobra Kai. La sua reputazione lo precedeva, tanto nelle accademie quanto nelle strade.
Rimasi nell’ombra, osservando. L’osservazione è sempre stata la mia prima linea di difesa e il mio strumento più affilato. Mio padre mi aveva insegnato che la conoscenza è potere, e in questo posto saturo di voci, odori e correnti emotive, c’era molto da apprendere senza dire una parola.
Ikaris emanava un’energia di brutale pragmatismo. Era come osservare un incantesimo della scuola di evocazione: diretto, efficace, senza ornamenti. I suoi allievi lo seguivano con quell’ammirazione cieca tipica di chi confonde la forza con la saggezza. Eppure, c’era qualcosa di genuino nel modo in cui interagiva con loro – una ruvidezza che mascherava un’autentica preoccupazione.
Tornai al mio libro, cercando di concentrarmi sui complessi diagrammi stellari, ma l’ingresso del dragonborn aveva alterato le energie del locale. Potevo sentirlo nelle sottili vibrazioni dell’etere che permea ogni cosa. Un potenziale catalizzatore per eventi ancora non manifestati.
Non dovetti attendere a lungo per la reazione. La porta della taverna si aprì nuovamente e una figura imponente entrò – un leonin dal manto bianco come la neve dei Monti Krovart, abbigliato in un’armatura che ricordava quelle dei leggendari guerrieri mistici del sud.
L’energia cambiò ancora. Se Ikaris era fuoco, questo leonin era acciaio temperato – inflessibile, severo, forgiato in principi rigidi come le lame più pure.
«Amici, non posso restare in silenzio mentre vi abbandonate a questi vizi…»
Le sue parole risuonavano con la tonalità energetica della magia da abiurazione – difensiva, protettiva, ma anche restrittiva. Recitava il suo sermone con una sincerità che non potevo fare a meno di rispettare, anche se il suo approccio mancava di finezza.
Osservai la reazione di Ikaris mentre si alzava per confrontarsi con l’intruso moralistico. Due catalizzatori incompatibili nella stessa soluzione – la reazione sarebbe stata inevitabile e potenzialmente violenta.
Toccai il cristallo di focalizzazione nascosto nella manica della mia veste. Non volevo intervenire, ma il confronto stava accelerando verso un punto di non ritorno. E qualcosa – forse l’intuizione, forse le sottili correnti arcane che sempre percepisco – mi suggeriva che questo incontro avesse un significato maggiore di quanto apparisse.
Mi alzai, sentendo il velo di timidezza che solitamente mi avvolge dissolversi come nebbia mattutina. Era sempre così quando le circostanze richiedevano azione. La mia vera natura emergeva, il sangue sylph che accelerava nelle mie vene, caricandosi di potenziale arcano.
Mi tolsi la sciarpa. «Forse c’è spazio per entrambe le visioni in questa taverna.»
Le mie parole furono misurate, bilanciate come un’equazione metafisica. Mi rivolsi prima al leonin. «La moderazione è una virtù tanto quanto la temperanza. Non è il boccale a definire l’uomo, ma come l’uomo gestisce ciò che il boccale contiene.»
Poi al dragonborn: «E a volte, anche i sermoni più inopportuni nascondono verità che meritano di essere ascoltate.»
Era curioso come, in presenza di sconosciuti, la mia solita riservatezza svanisse. Forse perché in quei momenti non ero Asterion Erendil, l’esiliato, l’erede spodestato – ero semplicemente una funzione nella grande equazione dell’esistenza, un contrappeso necessario.
I due mi fissavano con espressioni di sorpresa e valutazione. Sentii i fili del destino intrecciarsi attorno a noi tre, un fenomeno che i non-maghi spesso liquidano come casualità ma che qualsiasi studente di Arkanum riconoscerebbe come qualcosa di più profondo: la convergenza di linee di probabilità verso un futuro condiviso.
IKARIS
Il mezz’elfo dagli occhi luminosi mi fissava, e nel suo sguardo c’era qualcosa che mi ricordava i vecchi maestri di Rentotene. Una calma che nascondeva potere. Questo non era un semplice studioso con un libro, questo era qualcuno che sapeva combattere. Lo sentivo nel mio sangue, come sempre quando incontravo un guerriero.
«Non ho bisogno di un mediatore,» risposi, ma senza la stessa ferocia di prima.
Mi voltai verso Geeno, misurando le possibilità. Avrei potuto stenderlo? Probabilmente. Ma sarebbe stato un casino, e i miei allievi avrebbero assistito a quello che in fondo era solo un litigio da taverna. Non proprio l’esempio che volevo dare.
«Senti, campione della giustizia», dissi al leonin, «non sono qui per disturbare nessuno. Solo per bere qualcosa con i miei allievi dopo una giornata di duro allenamento. Se prometto che non li corromperò troppo, puoi abbassare i peli del collo e magari unirti a noi per una… acqua?»
Aggiunsi l’ultima parola con un mezzo sorriso provocatorio. Ma non era più una sfida, era quasi un invito.
Il mezz’elfo annuì leggermente, come approvando la mia decisione di abbassare la temperatura.
«Mi chiamo Ikaris,» dissi, estendendo una mano squamosa verso il leonin. «Maestro del dojo Cobra Kai di Callam. E suppongo di dover ringraziare Horauthin per il fatto che tu non mi abbia ancora chiamato ‘lucertola’, cosa che di solito accade nei primi tre secondi di conversazione con gente che non conosco.»
Poi mi voltai verso il mezz’elfo. «E tu? Hai un nome o devo chiamarti ‘il pacificatore blu’?»
«Asterion,» rispose con un lieve cenno del capo. «Asterion Erendil. Studente dell’Accademia di Arkanum.»
«Un mago,» commentai, cercando di non far trasparire la mia naturale diffidenza. I maghi erano sempre stati un mistero per me, con i loro libri e i loro incantesimi. Mi sembrava un modo da codardi di combattere, stando a distanza e lanciando magie invece di sporcarsi le mani. Ma questo Asterion aveva qualcosa di diverso… c’era una disciplina in lui che rispettavo.
In quel momento, un clamore improvviso dal porto attirò l’attenzione di tutti. Grida, ordini, il suono di casse scaricate con poca grazia. Gli avventori si girarono verso la porta, curiosi.
«Cosa sta succedendo là fuori?» chiese Miguel, alzandosi per vedere meglio.
«Sedetevi,» ordinai, ma la mia stessa curiosità ebbe la meglio. «Aspettate qui, vado a controllare.»
Stranamente, notai che sia Geeno che Asterion si mossero contemporaneamente verso la porta. Apparentemente, la curiosità trascendeva le differenze filosofiche.
GEENO
Un tumulto dal porto interruppe il nostro confronto. Una provvidenziale interruzione, forse, poiché sentivo che le parole stavano raggiungendo i loro limiti. A volte, Horauthin guida in modi misteriosi.
Ikaris, il dragonborn – che si era rivelato più ragionevole di quanto avessi inizialmente giudicato – si mosse verso la porta. Lo stesso fece Asterion, il mezz’elfo dai modi gentili e gli occhi saggi. Mi unii a loro, spinto da un senso di dovere che non potevo ignorare.
Le strade di Callam si erano riempite in pochi istanti. Una nave era attraccata al molo principale, ma non era una comune nave mercantile o da pesca. Questa aveva linee slanciate e vele decorate con simboli che non riconoscevo, chiaramente di fattura orientale.
E da quella nave scendeva una processione di figure che non avevo mai visto prima: creature simili a corvi antropomorfi, con piume nere lucenti e becchi affilati. Indossavano abiti esotici, ricchi di sete e broccati, e sembravano guidati da un esemplare più anziano che gesticolava con enfasi.
«Tengu,» mormorò Asterion accanto a me. «Vengono dall’Ippon, il continente orientale. Quello è probabilmente un dignitario o un nobile.»
Lo guardai sorpreso. «Conosci queste creature?»
«Ne ho letto nei testi di geografia planare,» rispose semplicemente, come se conoscere razze da continenti lontani fosse la cosa più naturale del mondo.
I Tengu si muovevano con grazia mentre scaricavano casse e bagagli dalla nave. Il loro leader, vestito con un elaborato kimono nero e rosso, camminava avanti e indietro sul molo, chiaramente agitato.
«Questo è il porto sbagliato!» lo sentimmo esclamare in una lingua comune pronunciata con un forte accento. «Dovevamo sbarcare ad Arkanum, non qui. Ci perderemo la grande fiera globale in cui i vincitori del torneo potranno essere finanziati per una spedizione nel continente appena scoperto, il nuovo mondo!»
Un torneo? Una spedizione? Un nuovo continente? Queste parole catturarono immediatamente la mia attenzione. Forse Horauthin mi stava indicando una nuova via, un nuovo modo per servire la giustizia e, forse, trovare finalmente il Lich Putin, l’assassino del mio villaggio.
Notai che anche Ikaris e Asterion erano improvvisamente più attenti. Gli occhi di Ikaris brillavano di un’ambizione che riconoscevo bene, mentre il volto solitamente composto di Asterion tradiva un sincero interesse accademico.
Il Tengu anziano si voltò improvvisamente, il suo sguardo acuto che sembrava scrutare direttamente nelle nostre anime. Si fermò, piegò la testa di lato in un gesto sorprendentemente simile a quello di un uccello normale, e poi – con una velocità che non mi aspettavo da una creatura così anziana – si mosse verso di noi.
«Voi tre!» esclamò, puntando un dito simile a un artiglio nella nostra direzione. «Voi siete la risposta alle mie preghiere!»
Istintivamente portai una mano al simbolo di Horauthin sulla mia armatura. Erano forse questi Tengu devoti a qualche oscuro dio orientale? O peggio, servitori di demoni? Dovevo restare vigile.
«Chi siete voi?» chiesi, la mia voce che rifletteva la cautela che provavo.
Il Tengu anziano rise, un suono simile al gracchiare di un corvo ma stranamente melodioso. «Io sono Kwang-Ra, Grande Shogun della Provincia di Narakarasu e Grande Oracolo della Volpe a Nove Code!» dichiarò con enfasi teatrale. «E voi, miei nuovi amici, siete le Tre Stelle che attraverseranno l’oceano orientale!»
ASTERION
I Tengu erano esattamente come li descrivevano i testi accademici – alti, eleganti, con movenze che combinavano la rapidità dei corvidi con la grazia degli umanoidi. Ma i testi non preparavano all’impatto visivo del loro abbigliamento: sete iridescenti che cambiavano colore con la luce, armature laccate con tecniche sconosciute in occidente, e soprattutto i simboli ricamati sui loro kimono – ideogrammi che pulsavano di energia arcana passiva, probabilmente incantamenti protettivi o identificativi.
Il leader, che si era presentato come Kwang-Ra, era particolarmente affascinante dal punto di vista arcano. Attorno a lui l’aria vibrava con sottili distorsioni, come se la realtà stessa fosse più malleabile in sua presenza. Un fenomeno che avevo studiato solo in teoria: il marchio di un veggente genuino, un manipolatore delle probabilità.
«Grande Oracolo,» dissi, inchinandomi leggermente nel modo che sapevo essere rispettoso nella cultura di Ippon, «è un onore incontrare un maestro delle arti divinatorie. Cosa intendete con ‘Tre Stelle’?»
Kwang-Ra batté le mani, evidentemente deliziato dalla mia conoscenza delle usanze orientali. I suoi occhi corvini brillavano di un’intelligenza acuta e forse un po’ folle.
«Ah! Un giovane che conosce le forme! Eccellente, eccellente!» gracchiò. «Le Tre Stelle sono voi, naturalmente! Il Drago Dorato, il Leone Bianco e il Vento Blu!» indicò ciascuno di noi mentre pronunciava questi titoli enigmatici. «La profezia è chiara come l’acqua di montagna: voi attraverserete l’oceano orientale, verso il Nuovo Mondo! Io l’ho visto durante la Danza della Volpe a Nove Code!»
Lasciai che le vibrazioni arcane delle sue parole mi attraversassero, analizzandole con la parte del mio intelletto addestrata a riconoscere la magia divinatoria. C’era potere in quelle parole, ma era cacofonico, disordinato – non il tipo di magia precisa che avevo imparato ad Arkanum, ma qualcosa di più primordiale e intuitivo.
Ikaris, prevedibilmente, sembrava scettico. «Senta, signor… corvo,» disse con impazienza, «non so di che profezia stia parlando, ma io ho un dojo da gestire qui a Callam.»
Geeno, invece, sembrava più ricettivo, il suo atteggiamento verso il divino gli permetteva forse di accettare meglio l’idea di una profezia.
«Questo Nuovo Mondo… è il continente di cui parlano i marinai? Quello scoperto da Frank Borrell?» chiese il leonin.
Kwang-Ra annuì così vigorosamente che temetti il suo collo si spezzasse. «Sì, sì! Il grande continente oltre il Mare Orientale! Terra di meraviglie e pericoli, di ricchezze mai viste e mostri mai affrontati!» Si avvicinò ulteriormente, abbassando la voce fino a un sussurro cospiratorio. «E dove, forse, si nascondono segreti che potrebbero interessare a ciascuno di voi.»
Questa ultima frase catturò la mia attenzione completa. Aveva detto “a ciascuno di voi”, non genericamente “a chiunque”. Come poteva conoscere i miei interessi? I miei segreti? La mia ricerca di conoscenze arcane perdute che potrebbero aiutarmi a reclamare il mio retaggio?
«E come si raggiunge questo Nuovo Mondo?» chiesi, cercando di mantenere la voce neutra nonostante la crescente curiosità.
Kwang-Ra sorrise, un’espressione inquietante sul suo volto da uccello. «Ah, ecco la domanda giusta! Arkanum sta organizzando un grande torneo. I vincitori riceveranno il finanziamento completo per una spedizione ufficiale al Nuovo Mondo!» Si frugò nelle maniche del kimono e ne estrasse tre piccoli oggetti. «E voi tre siete destinati a partecipare. Lo so. La Volpe me l’ha mostrato.»
Ci porse tre piccoli token di giada, ciascuno scolpito a forma di volpe. Mentre ne prendevo uno, sentii una lieve scossa di energia arcana – non un semplice ornamento, quindi, ma qualcosa di più.
Stavo per fare un’altra domanda quando un suono straziante di legno spezzato risuonò dal porto. Uno dei carri di trasporto dei Tengu si era rovesciato, spargendo casse e rotoli di seta sul selciato bagnato.
«Ah! I miei tesori!» esclamò Kwang-Ra, correndo verso il disastro con una velocità sorprendente per la sua età.
Rimasi lì, con il token di giada in mano, guardando alternativamente Ikaris e Geeno. Solo pochi minuti prima eravamo sul punto di scontrarci, e ora un oracolo stravagante ci aveva appena legato in una profezia condivisa.
Le linee del destino si erano intrecciate in modi che nemmeno i più complessi diagrammi di probabilità avrebbero potuto prevedere. E io, che avevo sempre preferito la precisione della magia accademicamente strutturata, mi ritrovavo attratto dall’imprevedibilità di questa situazione.
«Quindi,» disse infine Ikaris, rompendo il silenzio, «chi di voi due crede a questa follia?»
IKARIS
La giada era liscia e fredda al tatto, ma sembrava scaldarsi contro le mie scaglie, come se riconoscesse qualcosa in me. Ridicolo, ovviamente. Era solo una pietra a forma di volpe data da un vecchio corvo pazzo.
Eppure, l’idea di un torneo… quello mi intrigava. Un’opportunità di dimostrare che il Cobra Kai non era solo un piccolo dojo in una città portuale dimenticata. E questo “Nuovo Mondo” suonava come l’avventura perfetta, il tipo di sfida che avevo cercato da quando avevo lasciato il Picco Celeste.
«Quindi, chi di voi due crede a questa follia?» chiesi, anche se una parte di me aveva già deciso.
«Non si tratta di credere o non credere,» rispose Asterion, studiando il suo token con occhi analitici. «Le profezie sono spesso ambigue, soggette a interpretazione. Ma questo torneo ad Arkanum è sicuramente reale. Ho sentito voci all’Accademia.»
Geeno sembrava perso nei suoi pensieri, il token stretto nel pugno. «Il mio cammino è guidato da Horauthin, non da profezie straniere,» disse infine. Poi aggiunse, quasi riluttante: «Ma se questo Nuovo Mondo nasconde segreti su coloro che cerco, allora forse è lì che devo andare.»
Miguel si avvicinò, seguito dagli altri allievi. «Sensei, cosa sta succedendo?»
Guardai i miei studenti. Erano bravi ragazzi, a modo loro. Meritavano un maestro che potesse insegnare loro non solo a combattere, ma anche a vincere. A conquistare il mondo là fuori.
«Sembra che il vostro sensei stia per partecipare a un torneo,» risposi. «Il che significa che per un po’ dovrete allenarvi da soli. Miguel, sarai responsabile del dojo in mia assenza.»
Gli occhi del ragazzo si illuminarono. «Sul serio, sensei? Io… non vi deluderò!»
«Meglio per te,» risposi, dandogli una pacca sulla spalla che lo fece quasi cadere. «Se torno e scopro che hai trasformato il mio dojo in un circolo di danza, sarà meglio che tu sappia volare.»
Mi rivolsi nuovamente a Geeno e Asterion. «Allora, sembra che abbiamo tutti le nostre ragioni per andare ad Arkanum. La domanda è: andiamo come individui o come squadra?»
I due si guardarono, poi guardarono me. C’era esitazione nei loro occhi, ed era comprensibile. Non eravamo esattamente un trio naturale. Un dragonborn maestro di arti marziali, un leonin campione della giustizia e un mezz’elfo mago accademico.
«Le squadre hanno maggiori possibilità di successo nei tornei multiprova,» osservò Asterion con pragmatismo. «Diverse abilità, diverse prospettive.»
«E viaggiare in gruppo offre protezione,» aggiunse Geeno. «La strada per Arkanum non è priva di pericoli.»
Notai che entrambi stavano dando ragioni pratiche, evitando di ammettere che forse, solo forse, c’era qualcosa in quella profezia che li aveva colpiti quanto aveva colpito me.
«Bene,» dissi. «Allora siamo una squadra. Almeno fino ad Arkanum. Poi vedremo.»
«Una squadra ha bisogno di un nome,» disse Geeno improvvisamente. «Per registrarsi al torneo.»
Ci fu un momento di silenzio mentre ciascuno di noi rifletteva.
«Che ne dite di ‘La Compagnia del Fardello’?» suggerì infine il leonin. «Ognuno di noi porta un peso, un fardello. Forse insieme possiamo rendere il carico più leggero.»
Mi aspettavo che Asterion proponesse qualcosa di più accademico, ma il mezz’elfo annuì. «Ha una certa… verità poetica,» disse.
«La Compagnia del Fardello,» ripetei, assaporando le parole. Non era il nome che avrei scelto – troppo sentimentale per i miei gusti – ma aveva un certo suono. «Va bene. Ma non aspettatevi che inizi a parlare di sentimenti e a condividere i miei problemi attorno a un falò.»
E così, con un corvo pazzo e una profezia discutibile come catalizzatori, La Compagnia del Fardello nacque in un pomeriggio qualunque a Callam. Nessuno di noi poteva immaginare dove ci avrebbe portato questa strada, o quanto pesanti sarebbero stati i fardelli che avremmo dovuto sopportare lungo il cammino.
Ma quello era un problema per il domani. Per ora, avevo bisogno di un’altra birra.
GEENO
I giorni seguenti alla formazione della Compagnia del Fardello furono segnati da un’insolita attività. Avevamo concordato di intraprendere alcune missioni per la Gilda degli Avventurieri locale prima di partire per Arkanum: un modo per mettere alla prova le nostre abilità individuali e imparare a conoscerci meglio.
Mentre Ikaris aveva scelto di occuparsi da solo di un problema con dei lupi predatori a nord del villaggio, io e Asterion ci dirigemmo verso la casa di un’anziana donna di nome Matilda, che aveva richiesto aiuto per quella che definiva “un’infestazione di roditori”.
La sua abitazione era modesta ma pulita, situata sul limitare orientale di Callam. Matilda, una donna umana con capelli bianchi raccolti in una crocchia e mani nodose segnate dagli anni, ci accolse con un sorriso riconoscente che tradiva anche preoccupazione.
«Benedetto sia Horauthin che vi ha mandati, giovani,» disse quando ci presentammo alla sua porta. «Da giorni non oso scendere in cantina. I rumori sono terribili, sembrano ratti grandi come cani!»
Asterion la rassicurò con un tono gentile che contrastava con la sua solita riservatezza. «Non temete, signora. Esamineremo la situazione e risolveremo il problema.»
Seguimmo Matilda all’interno. La sua casa profumava di erbe essiccate e pane appena sfornato. Un rifugio di normalità che però nascondeva qualcosa di inquietante nelle sue fondamenta, a giudicare dai graffi e rumori che provenivano da una botola nel pavimento della cucina.
«È lì sotto,» sussurrò Matilda, indicando la botola con un dito tremante. «Qualunque cosa sia, ha iniziato tre notti fa. Prima erano solo rumori, ma ora sento come se… stessero parlando tra loro.»
Ratti che parlano? Improbabile, ma non impossibile. Le terre di Vaskaras ospitano creature ben più strane. Scambiai uno sguardo con Asterion, che annuì quasi impercettibilmente.
«Restate qui, signora,» dissi con fermezza. «Ci occuperemo noi di questa minaccia.»
Estrassi la mia lancia mentre Asterion preparava un incantesimo di luce, facendo brillare un piccolo cristallo che teneva sul palmo della mano. Con cautela, sollevai la botola.
Il fetore che emerse fu quasi accecante – putrido, marcio, come carne in decomposizione mescolata a escrementi. La luce del cristallo di Asterion rivelò una scala di legno che scendeva in una cantina terrosa, ingombra di casse e barili.
«Dopo di te, mago,» dissi con un mezzo sorriso. «La tua luce ci guiderà.»
«La tua lancia ci proteggerà,» rispose lui, ma avanzò comunque per primo.
Scendemmo nella cantina, i nostri sensi all’erta. Il dono di Horauthin mi permetteva di vedere bene anche in condizioni di scarsa illuminazione, e ciò che vidi non mi piacque affatto. Le pareti della cantina mostravano segni di escavazione, e tunnel irregolari si aprivano in varie direzioni.
«Non sono semplici topi,» mormorò Asterion, esaminando le tracce sul terreno. «Queste sono scavate con uno scopo. Vedi come i tunnel seguono uno schema quasi… geometrico?»
Aveva ragione. I percorsi non erano casuali come ci si aspetterebbe da roditori comuni. C’era un disegno, un’intelligence dietro questo.
Un movimento improvviso catturò la mia attenzione. Dall’ombra, un ratto grosso quanto un cucciolo di cane emerse, gli occhi rossi brillanti di un’intelligenza malevola. Non era solo. Altri cinque o sei lo seguirono, circondandoci lentamente.
«Asterion,» dissi a bassa voce, spostando lo scudo in posizione difensiva, «credo che abbiamo trovato i nostri roditori.»
Ma il mago non rispose. Mi voltai e vidi che si era trasformato. La sua usuale espressione riservata era scomparsa, sostituita da una concentrazione feroce. La sciarpa che solitamente gli copriva il viso era scivolata via, rivelando lineamenti tesi in un’espressione di fredda determinazione. I suoi occhi brillavano di un blu intenso, quasi soprannaturale, e l’aria attorno a lui sembrava vibrare di energia arcana.
Non ebbi il tempo di sorprendermi ulteriormente. I ratti attaccarono contemporaneamente, come una singola entità con molti corpi. La mia lancia colpì il primo, trafiggendolo con un colpo netto, ma gli altri erano già su di noi.
Asterion si mosse con una grazia che non gli avevo visto prima. Le sue mani tracciarono complessi movimenti nell’aria mentre pronunciava parole di potere. Da ogni suo dito scoccarono dardi luminosi che colpirono con precisione letale i ratti in avvicinamento.
«Sono controllati,» esclamò tra un incantesimo e l’altro. «C’è una mente dominante che li guida!»
Combattemmo fianco a fianco, la mia lancia e il suo scudo che si muovevano in sincronia con la sua magia. Era come se avessimo già combattuto insieme cento volte prima – i suoi incantesimi non interferivano mai con i miei movimenti, e io riuscivo a proteggere lui quando la sua concentrazione era rivolta agli incantesimi più complessi.
Dopo aver eliminato l’ondata iniziale di ratti, seguimmo il tunnel principale, che si allargava man mano che procedevamo. Lo spazio si aprì infine in una caverna sotterranea che non aveva nulla di naturale. Era stata scavata deliberatamente, e al centro, su un trono improvvisato fatto di detriti e ossa, sedeva la creatura più disgustosa che avessi mai visto.
Un enorme ratto, grande quanto un orso, con la pelliccia nera chiazzata di grigio e cicatrici. Ma non era la sua dimensione a renderlo terrificante, bensì gli occhi – intelligenti, calcolatori, quasi… umani. E sulla sua testa, una corona rudimentale fatta di metallo contorto e pietre semipreziose.
«Un Re dei Ratti,» sussurrò Asterion. «Una mutazione rara. Quando molti ratti vivono in condizioni di estrema vicinanza, a volte le loro code si annodano e fondono, creando una creatura con una mente collettiva.»
La bestia ci fissò e, con mio orrore, parlò con una voce rasposa ma comprensibile.
«Intrusiii,» sibilò. «Il mio regno sssi esssstende. Questa cassa è solo l’inizio. La città ssssarà mia.»
Horauthin mi guidi, pensai, stringendo la presa sulla lancia. Questa abominazione doveva essere fermata.
«In guardia, Asterion,» dissi. «Non possiamo permettere a questa cosa di diffondersi oltre.»
Il mezz’elfo annuì, i suoi occhi ora illuminati da una luce interiore ancora più intensa. «Ho un piano,» disse rapidamente. «Posso colpirlo con un incantesimo che lo paralizzerà, ma avrai solo pochi secondi per sferrare il colpo fatale.»
Non c’era tempo per discutere. Il Re dei Ratti si alzò dal suo trono, rivelando le sue dimensioni reali – era più grande di quanto avessi immaginato, con artigli lunghi come pugnali e denti che sembravano poter triturare l’acciaio.
«Ora!» gridò Asterion, e dalle sue mani si sprigionò un’intensa luce blu che avvolse la creatura. Il Re dei Ratti si immobilizzò, i suoi muscoli bloccati dalla magia.
Non esitai. Con un grido che invocava Horauthin, caricai in avanti, la lancia puntata al cuore della bestia. La punta dell’arma affondò nella carne corrotta, incontrando resistenza per un istante prima di penetrare completamente. Una sensazione di giustizia compiuta mi attraversò mentre la vita abbandonava gli occhi della creatura.
Il corpo massiccio del Re dei Ratti crollò a terra con un tonfo pesante, sollevando polvere e detriti. Intorno a noi, i ratti normali che ancora pullulavano nei tunnel sembrarono perdere all’improvviso la loro coordinazione, correndo in tutte le direzioni in preda al panico.
Mi voltai verso Asterion, che stava riprendendo fiato, il suo volto che gradualmente tornava alla solita compostezza riservata. La luce nei suoi occhi diminuiva lentamente, come una fiamma che torna alla normalità dopo essere stata alimentata.
«Combatti bene, mago,» dissi con sincero rispetto. «C’è più in te di quanto il tuo aspetto tranquillo suggerirebbe.»
Un’ombra di sorriso apparve sul suo volto mentre recuperava la sciarpa e la riavvolgeva attorno al viso. «Anche tu non sei esattamente come ti immaginavo, campione di Horauthin.»
Mentre tornavamo in superficie per dare la buona notizia a Matilda, sentii che qualcosa era cambiato tra noi. Non eravamo più solo due sconosciuti uniti da una profezia bizzarra e da un nome di squadra. Avevamo combattuto insieme, affidando le nostre vite l’uno all’altro. E in battaglia, si rivelano le vere nature degli individui.
Forse, pensai, questa Compagnia del Fardello avrebbe potuto essere più di un semplice accordo temporaneo.
IKARIS
I lupi, avevano detto. Solo un branco di lupi che disturbava il bestiame di un contadino locale. Una missione facile, adatta a un principiante. Una passeggiata.
Cazzate.
Mi trovavo ora in piedi, il respiro pesante, circondato dai corpi di quattro lupi enormi. Non lupi normali – queste bestie erano grosse come pony, con occhi gialli intelligenti e zanne lunghe come pugnali. E ora mancava all’appello il quinto, il capobranco dalla pelliccia argentata.
«Vieni fuori, bastardo!» gridai nella foresta che circondava il piccolo podere del contadino Doram. «So che sei ancora qui!»
Un rumore alle mie spalle mi fece voltare di scatto. Doram, il contadino, stava cercando di trascinarsi verso la sua capanna, una gamba chiaramente ferita. Merda. Uno dei lupi doveva averlo raggiunto mentre ero impegnato con gli altri.
«Resta giù, idiota!» gli urlai. «Non è finita!»
Come a darmi ragione, un ringhio basso emerse dal limitare del bosco. Poi lo vidi – non era affatto un lupo. O meglio, non era solo un lupo.
La creatura che si avvicinava camminava su due zampe, il corpo massiccio coperto di pelliccia grigia, ma la postura e gli occhi erano quasi umani. Un mannaro. E dalla sua espressione, era piuttosto incazzato.
«Hai ucciso il mio branco,» ringhiò la creatura con una voce che era a metà tra un ruggito e un parlato umano. «Li hai uccisi tutti!»
«Stavano attaccando il bestiame,» risposi, mettendomi in guardia. «E a quanto pare, anche il proprietario.»
«Questa terra era nostra prima che i tuoi la rivendicassero!» ruggì il mannaro, avanzando verso di me con le zanne scoperte.
Non persi tempo a discutere di politica territoriale con un mostro peloso. Mi lanciai in avanti, sfruttando la mia agilità per colpirlo con un calcio rotante al fianco.
Fu come colpire un muro di pietra. Il mannaro non si mosse di un millimetro, limitandosi a ghignare. «È tutto quello che sai fare, lucertola?»
Oh, adesso era personale. Nessuno mi chiama lucertola.
I pugni e i calci successivi furono più precisi, mirando ai punti vulnerabili – gola, ginocchia, plesso solare. Alcuni colpi andarono a segno, facendo guaire la bestia, ma non era abbastanza. Questa cosa era più resistente di qualsiasi avversario avessi affrontato recentemente.
Il mannaro contrattaccò con una rapidità sorprendente per la sua mole. Artigli affilati come rasoi mi sfiorarono il volto, lasciando tre solchi sulle mie scaglie. Poi un pugno peloso mi colpì al petto, mandandomi a sbattere contro un albero.
Sentii il sapore del sangue in bocca. Bene. Il dolore mi rendeva sempre più concentrato. Mi rialzai, assumendo la posizione del cobra – bassa, stabile, pronta a scattare.
«La danza è appena iniziata,» dissi, sentendo il calore crescere nel mio petto.
Il mannaro caricò, zanne scoperte puntate alla mia gola. Era esattamente quello che volevo. Aspettai fino all’ultimo istante, poi mi spostai di lato, afferrai il suo braccio e utilizzai il suo stesso slancio per sbatterlo contro l’albero dove ero stato io un attimo prima.
La creatura si riprese più velocemente di quanto mi aspettassi, girandosi con un ruggito furioso. Ma ora era in posizione perfetta.
Inspirai profondamente, sentendo l’antico potere del mio sangue svegliarsi. Poi esalai.
Una colonna di fuoco ardente uscì dalla mia bocca, investendo in pieno il mannaro. L’aria si riempì dell’odore di pelo bruciato e carne carbonizzata, insieme all’ululato di agonia della creatura.
Quando le fiamme si estinsero, il mannaro era ancora in piedi, anche se gravemente ustionato e barcollante. Per un attimo vidi paura nei suoi occhi – non si aspettava che potessi fare una cosa del genere.
Sfruttai il momento di confusione per sferrare il colpo finale – un pugno diretto alla gola, con tutta la forza che mi restava. Sentii qualcosa rompersi sotto le mie nocche, e il mannaro crollò in ginocchio, gli occhi spalancati, cercando invano di respirare.
«Il tuo branco non attaccherà più nessuno,» dissi, guardandolo morire lentamente.
Solo quando la luce abbandonò i suoi occhi, mi ricordai di Doram. Mi voltai di scatto, correndo verso il contadino ferito. Era ancora vivo, ma la ferita alla gamba sembrava grave – profonda, con segni di denti.
«Tuo figlio,» mormorò Doram, «è al sicuro nel fienile. Per favore… proteggilo.»
Imprecai tra me. Stava perdendo troppo sangue, e la mia conoscenza di medicina era limitata ai bendaggi di emergenza imparati in prigione. Dovevo portarlo velocemente in città, dal guaritore più vicino.
Strappai una striscia dalla mia tunica per fasciare temporaneamente la ferita, poi mi avviai verso il fienile. All’interno trovai un ragazzino tremante, rannicchiato dietro a una pila di fieno. Era magro, con capelli biondi sporchi e occhi pieni di paura.
«Tuo padre è ferito,» dissi, cercando di ammorbidire il tono della mia voce, che non era esattamente la mia specialità. «Ma è vivo. Come ti chiami, ragazzo?»
«T-Tomas,» balbettò. «I lupi… sono ancora là fuori?»
«No. I lupi sono morti. Tutti quanti.» Esitai un attimo, poi aggiunsi: «Hai altri parenti in città?»
Il ragazzo scosse la testa. «Solo papà.»
Merda. Avrei dovuto portarli entrambi in città. E il bestiame? Non potevo lasciarlo incustodito, sarebbero arrivati predatori peggiori a banchettare con le pecore.
Per un momento desiderai che Geeno o Asterion fossero con me. Affrontare mostri era una cosa, gestire le conseguenze era tutta un’altra faccenda.
«Ascolta, Tomas,» dissi infine. «Devo portare tuo padre dal medico. Tu vieni con me. Il bestiame dovrà arrangiarsi per un po’.»
Sollevai Doram, cercando di non peggiorare le sue ferite, e con Tomas che mi seguiva come un’ombra spaventata, iniziai il cammino verso Callam.
Durante il tragitto, mi resi conto che la missione “facile” si era rivelata molto più complicata del previsto. E se questo era il livello delle sfide che ci attendevano, forse avrei dovuto riconsiderare l’idea di affrontarle da solo.
La Compagnia del Fardello iniziava ad avere più senso di quanto volessi ammettere.
ASTERION
I dieci giorni successivi trascorsero in un equilibrio di preparazione metodica e graduale conoscenza reciproca. Dopo le nostre prime missioni separate (il mio incontro con Geeno contro il Re dei Ratti e la battaglia solitaria di Ikaris contro il mannaro), era chiaro che la Compagnia del Fardello necessitava di una certa calibrazione delle nostre diverse abilità.
Fu Ikaris, sorprendentemente, a proporre un programma di allenamento congiunto. «Se dobbiamo combattere come squadra, dobbiamo allenarci come squadra,» aveva detto nel suo modo brusco ma pragmatico.
Il cortile dietro il suo dojo divenne il nostro campo di addestramento. Ogni mattina, ci riunivamo all’alba: Ikaris già sveglio e impaziente, Geeno regolarmente in anticipo dopo le sue preghiere mattutine a Horauthin, e io, generalmente puntuale ma con gli occhi ancora pesanti per le notti passate a studiare vecchi tomi sulla magia da combattimento.
Ikaris si rivelò un insegnante sorprendentemente efficace, nonostante i suoi metodi non convenzionali.
«La magia è utile, Asterion,» mi disse durante la nostra terza sessione, «ma cosa farai quando un nemico sarà abbastanza vicino da poterti sentire respirare?»
Senza attendere risposta, si lanciò verso di me con un movimento fulmineo. Mi spostai d’istinto, evocando una barriera arcana che lo respinse di qualche passo.
«Vedi?» ghignò, riprendendo immediatamente la posizione di guardia. «Hai usato la magia per difenderti. Ma hai consumato energia che potresti risparmiare con un semplice movimento del corpo.»
Aveva ragione, in un certo senso. La mia formazione all’Accademia si era concentrata molto sulla teoria e sull’applicazione a distanza del potere arcano. La magia da combattimento ravvicinato non era il mio punto di forza, nonostante il mio addestramento nello stile Laughing Shadow.
Da parte mia, insegnai a entrambi alcune tecniche di comunicazione mentale che avrebbero potuto rivelarsi utili in situazioni dove il silenzio era essenziale. Geeno, con la sua mente disciplinata, apprese rapidamente. Ikaris… beh, diciamo che i suoi pensieri tendevano a essere tanto diretti quanto le sue parole.
«È come avere qualcuno che urla nella tua testa,» si lamentò dopo il primo tentativo riuscito di comunicazione telepatica. «Non puoi abbassare un po’ il volume, mago?»
Geeno contribuì con la sua conoscenza di segnali manuali militari, un linguaggio silenzioso utilizzato dalle forze d’élite del suo paese d’origine. Con pazienza ci insegnò i gesti fondamentali: avanzare, fermarsi, pericolo, ritirata.
«La comunicazione è vita sul campo di battaglia,» spiegò con la serietà che lo caratterizzava. «Un segnale frainteso può costare più di una spada spuntata.»
Man mano che i giorni passavano, iniziavo a percepire sottili cambiamenti nelle dinamiche della nostra piccola compagnia. Le interazioni inizialmente tese iniziavano a sciogliersi. Ikaris smetteva occasionalmente di chiamare Geeno “gattone”, e Geeno a sua volta limitava i sermoni sulla temperanza quando il dragonborn beveva la sua birra serale.
Quanto a me, mi sorpresi a sentirmi sempre più a mio agio con loro. All’Accademia, la mia natura riservata e il mio status di “outsider” – né completamente elfo né completamente sylph – mi avevano sempre tenuto ai margini. Ma con Ikaris e Geeno, le differenze sembravano essere fonte di forza piuttosto che di divisione.
Un evento particolarmente significativo avvenne la sera dell’ottavo giorno. Riuniti attorno a un tavolo del Rusty Anchor dopo una giornata di intenso allenamento, Ikaris aveva ordinato il consueto giro di bevande. Ma questa volta, con mia sorpresa, Geeno non protestò.
«Una sola,» disse invece, accettando un boccale di idromele. «In onore della compagnia che stiamo forgiando.»
Ikaris sollevò un sopracciglio squamoso, visibilmente sorpreso. «Stai imparando, gattone,» disse, ma il suo tono mancava del solito sarcasmo.
Alzò il suo boccale. «Alla Compagnia del Fardello. Che possiamo vincere questo dannato torneo e trovare qualunque cosa stiamo cercando in questo Nuovo Mondo.»
«Alla giustizia che guida i nostri passi,» aggiunse Geeno, unendo il suo boccale al brindisi.
Entrambi mi guardarono, aspettando il mio contributo.
«Alla conoscenza che illumina il nostro cammino,» dissi, completando il triangolo dei nostri boccali.
Fu un momento semplice, privo di fanfare o dichiarazioni grandiose. Eppure, in quel momento, percepii un cambiamento nelle probabilità, un riallineamento di possibilità future. Tre individui così diversi, uniti da una profezia e da un nome, iniziavano a diventare qualcosa di più: una vera compagnia.
Il mattino del decimo giorno, ci preparammo per la partenza. Ikaris affidò il dojo a Miguel, con istruzioni dettagliate e minacce creative su cosa sarebbe successo se al suo ritorno avesse trovato il Cobra Kai “trasformato in un club di danza”.
Geeno concluse le sue preghiere mattutine con particolare solennità, chiedendo la benedizione di Horauthin sul nostro viaggio.
Quanto a me, impacchettai attentamente i miei tomi, componenti per incantesimi e il piccolo diario dove avevo iniziato a registrare le nostre avventure. Il token di giada a forma di volpe, regalo dello strano Kwang-Ra, trovò posto in una tasca interna, vicino al cuore. Non ero sicuro del suo significato, ma la sua energia arcana sottile mi suggeriva di tenerlo vicino.
Ci riunimmo all’alba presso la porta nord di Callam, equipaggiati e pronti. La strada per Arkanum ci attendeva.
GEENO
L’alba del decimo giorno era limpida e fresca, con l’aria che portava il primo sentore dell’autunno imminente. Mi inginocchiai rivolto verso est, dove i primi raggi del sole tingevano il cielo di rosa e oro, e recitai la preghiera mattutina a Horauthin.
«Luce della Giustizia, guidami oggi come sempre. Rafforza il mio braccio contro i malvagi, illumina il mio cuore contro l’inganno, e se dovrò cadere, fa’ che sia in piedi e con onore.»
Aggiunsi anche una breve invocazione per i miei nuovi compagni, cosa che non avevo mai fatto prima: «E proteggi coloro che ora camminano al mio fianco, per quanto diverse possano essere le loro strade dalla mia.»
Quando terminai, trovai Ikaris e Asterion che mi attendevano alla porta settentrionale della città. Il dragonborn sembrava impaziente, spostando continuamente il peso da un piede all’altro, mentre il mago stava regolando le cinghie della sua borsa, assicurandosi che i preziosi tomi e componenti magici fossero al sicuro.
«Finalmente,» sbuffò Ikaris quando mi avvicinai. «Pensavo avessi deciso di sposare il tuo dio invece di venire con noi.»
Non mi offesi. Nei giorni trascorsi insieme, avevo imparato che il modo brusco di Ikaris era più una corazza che una vera rappresentazione del suo carattere. Sotto quella superficie ruvida si celava un guerriero con un codice d’onore, per quanto diverso dal mio.
«Horauthin ascolta sempre,» risposi semplicemente. «E oggi ci servirà tutta la protezione possibile.»
«Preferisco contare su questo,» replicò, battendo un pugno contro il palmo aperto dell’altra mano. Poi sorrise, rivelando denti affilati. «Ma suppongo che un po’ di assistenza divina non guasti.»
Ci incamminammo lungo la strada settentrionale, lasciandoci alle spalle Callam. Il percorso per Arkanum non era eccessivamente lungo – tre giorni di cammino a ritmo sostenuto – ma attraversava regioni selvagge, incluse le famigerare Colline dell’Eco.
La prima giornata trascorse senza incidenti significativi. Asterion ci intratteneva occasionalmente con frammenti di storia locale o curiosità arcane sui luoghi che attraversavamo, mentre Ikaris raccontava aneddoti sorprendentemente coloriti dei suoi anni di viaggio dopo aver lasciato il “Picco Celeste”, un luogo di cui parlava con raro rispetto.
Verso sera, ci accampammo in una piccola radura. Mentre Ikaris raccoglieva legna per il fuoco e Asterion preparava un incantesimo protettivo attorno al perimetro, mi dedicai alla caccia, riuscendo a catturare due conigli selvatici che presto rosticchiavano sopra le fiamme.
La seconda giornata ci portò nel cuore delle Colline dell’Eco. Il nome non era casuale – il silenzio in quell’area aveva una qualità quasi tangibile, interrotto occasionalmente da sussurri e frammenti di conversazioni che sembravano provenire da nessun luogo specifico.
«Cosa sono questi suoni?» chiesi ad Asterion, che sembrava il più informato sui fenomeni arcani.
Il mezz’elfo si fermò, ascoltando attentamente. «Le Colline dell’Eco sono intersecate da linee ley che emanano da Arkanum,» spiegò. «L’energia magica crea distorsioni nello spazio e nel tempo. Ciò che sentiamo sono echi di conversazioni avvenute qui secoli fa… o forse conversazioni che devono ancora avvenire.»
Era un pensiero inquietante, ma anche affascinante. Mi chiesi se Horauthin avesse mai camminato su queste colline, e se la sua voce divina fosse tra quelle che sussurravano attorno a noi.
Fu nel tardo pomeriggio del secondo giorno che incontrammo il primo vero ostacolo del nostro viaggio. Stavamo seguendo un sentiero che si snodava tra due colline quando sentimmo grida di aiuto più avanti.
Ikaris reagì istintivamente, correndo avanti con la rapidità che caratterizzava il suo stile di combattimento. Asterion ed io lo seguimmo, più cauti ma comunque pronti all’azione.
Oltre una curva del sentiero, trovammo uno spettacolo allarmante: un carro a vapore di fattura nana, decorato con ingranaggi e tubi di rame, era stato fermato da un gruppo di banditi. Un nano dalla barba grigia cercava di difendersi con un’ascia, ma era in netta inferiorità numerica.
«Sette contro uno,» ringhiò Ikaris, stringendo i pugni. «Mi sembra un po’ sleale.»
«Concordo,» dissi, impugnando la mia lancia e posizionando lo scudo. «È nostro dovere intervenire.»
Asterion annuì, già mormorando le prime parole di un incantesimo, i suoi occhi che iniziavano a brillare di quella luce blu intensa che avevo visto durante il nostro combattimento con il Re dei Ratti.
«Sapete il piano,» disse Ikaris. «Io vado in mezzo, Geeno copre il fianco sinistro, Asterion supporto a distanza e al fianco destro.»
Mettemmo in pratica le tattiche che avevamo affinato durante i nostri allenamenti. Ikaris caricò direttamente nel gruppo di banditi, colpendo il primo con un calcio volante che lo mandò a sbattere contro il carro. Io mi mossi sul fianco, usando lo scudo per bloccare le frecce che un arciere tentava di scagliare contro di noi, mentre la mia lancia teneva a bada due banditi armati di spade corte.
Asterion rimase indietro solo per un istante, poi si unì alla mischia con uno stile che combinava movimenti di danza e gesti arcani. Le sue mani tracciavano linee luminose nell’aria mentre evocava dardi magici che colpivano con precisione letale.
Il capo dei banditi, un uomo alto con una cicatrice che gli attraversava il volto, riconobbe immediatamente la minaccia. «Guardie di Arkanum!» gridò, indicandoci. «Uccideteli tutti!»
Fu allora che notai la qualità delle loro armi e armature – non erano semplici predoni di strada. L’uomo con la cicatrice indossava quella che sembrava un’uniforme logora ma di buona fattura, simile a quelle delle guardie cittadine di grandi centri urbani.
«Questi non sono banditi comuni,» gridai agli altri, parando un colpo diretto alla mia testa. «Sono organizzati!»
La battaglia si intensificò. Ikaris era circondato da tre avversari ma sembrava nel suo elemento, schivando e contrattaccando con una grazia letale che tradiva anni di addestramento. Asterion alternava incantesimi offensivi a movimenti difensivi, la sua spada ora avvolta in un’aura arcana blu che tagliava attraverso le protezioni nemiche come fossero carta.
Il nano, nonostante fosse ferito, combatteva con la tenacia tipica della sua razza, la sua ascia che descriveva archi letali nell’aria.
Concentrai la mia attenzione sul capo. Caricai in avanti, lo scudo alzato per deflettere un colpo di spada, e poi affondai con la lancia. L’uomo era veloce, però – troppo veloce per un semplice bandito. Schivò il colpo e contrattaccò con una serie di fendenti che rivelavano un addestramento militare formale.
«Chi sei?» chiesi, mentre le nostre armi si scontravano. «Nessun predone comune combatte così.»
L’uomo ghignò, rivelando un dente d’oro. «Un tempo ero il capitano Darreth della guardia di Arkanum. Ora sono solo un uomo che prende ciò che gli spetta.»
Un ex-ufficiale caduto in disgrazia, quindi. La sua storia non mi interessava – la giustizia non fa distinzioni di rango o passato.
Con un movimento che avevo perfezionato nei giorni di allenamento con Ikaris, fintai un affondo diretto, per poi cambiare direzione all’ultimo secondo. La punta della mia lancia trovò un varco nell’armatura di Darreth, penetrando appena sotto le costole. Non un colpo fatale, ma abbastanza per metterlo fuori combattimento.
Con la caduta del loro leader, il resto dei banditi perse rapidamente coraggio. Due fuggirono immediatamente nella foresta, mentre gli altri si arresero, gettando le armi a terra.
Quando la polvere si posò, ci avvicinammo al nano, che si stava asciugando il sangue da un taglio sulla fronte.
«Vi sono eternamente grato, viaggiatori,» disse con voce profonda e roca. «Il mio nome è Eustach, mercante di Arkanum. Se non foste intervenuti, temo che il mio viaggio sarebbe finito qui, e in modo definitivo.»
«Siamo felici di aver potuto aiutare,» risposi, pulendo la lancia dal sangue. «La giustizia ci ha guidato nel momento del bisogno.»
Ikaris alzò gli occhi al cielo al mio riferimento alla giustizia, ma non disse nulla. Stava esaminando il carro con evidente curiosità.
«Interessante veicolo,» commentò. «Non ho mai visto un carro a vapore con queste modifiche.»
Eustach si illuminò all’istante. «Ah, notate il sistema di iniezione del vapore? L’ho perfezionato io stesso! Aumenta l’efficienza del 30% rispetto ai modelli standard, sapete…»
E così iniziò una lunga spiegazione tecnica che Asterion seguì con genuino interesse, mentre io e Ikaris ci scambiammo sguardi divertiti. I nani e la loro passione per la meccanica erano leggendari, e Eustach sembrava incarnare perfettamente lo stereotipo.
«State andando ad Arkanum, immagino?» chiese infine, dopo aver concluso la sua dissertazione sui miglioramenti apportati al carro.
«Sì,» confermò Asterion. «Per partecipare al torneo.»
Gli occhi di Eustach si illuminarono. «Il Grande Torneo di Arkanum! Una competizione magnifica! Sapete, mio fratello Thordek gestisce un bed and breakfast proprio ad Arkanum. Il Grifone Azzurro, nel Quartiere degli Studiosi. Sarò felice di raccomandarvi – è il minimo che posso fare per i miei salvatori!»
Accettammo con gratitudine l’offerta. Un alloggio sicuro e raccomandato sarebbe stato un vantaggio non indifferente in una città sconosciuta.
Dopo aver legato i banditi ancora vivi e accettato di consegnarli alle autorità di Arkanum, aiutammo Eustach a riparare il carro, che fortunatamente aveva subito danni superficiali. Il nano insistette perché completassimo il viaggio insieme, offrendoci un passaggio.
«Sarete miei ospiti d’onore! E vi presenterò a mio fratello non appena giungeremo in città.»
E così, con il carro a vapore che sbuffava allegramente, riprendemmo il nostro viaggio verso Arkanum, ora in compagnia di un nano loquace ma amichevole che sembrava determinato a ripagarci per il nostro intervento.
Il destino opera in modi misteriosi, pensai. Ciò che era iniziato come un semplice atto di giustizia si era trasformato in un’opportunità inaspettata. Forse Horauthin ci stava davvero guidando lungo questo cammino.
IKARIS
Quando la città di Arkanum apparve all’orizzonte, persino io, che non sono esattamente il tipo che si lascia impressionare facilmente, rimasi senza parole. Non era semplicemente costruita – sembrava che galleggiasse su un’isola al centro di un vasto golfo craterico, collegata alla terraferma da un lungo ponte di pietra bianca che sembrava quasi brillare sotto il sole.
Le torri di Arkanum si innalzavano verso il cielo come dita affusolate, alcune avvolte da spirali di energia luminosa visibili anche a distanza. Bandiere e stendardi di ogni forma e colore sventolavano tra gli edifici, conferendo alla città un’aria festosa.
«Ecco,» annunciò Eustach con evidente orgoglio, «la più grande città magica del continente! Non c’è nulla di simile in tutto il mondo conosciuto.»
«È… impressionante,» ammise Geeno, per una volta senza fare commenti moralizzatori.
Asterion si limitò a sorridere, ma notai che i suoi occhi brillavano di un entusiasmo che raramente mostrava. Questo era il suo elemento – una città dedicata all’apprendimento e alla magia.
Il carro di Eustach procedette lungo la strada principale che conduceva al ponte. Man mano che ci avvicinavamo, il traffico aumentava. Mercanti, viaggiatori, avventurieri – tutti convergevano verso Arkanum, molti probabilmente attirati dal torneo di cui aveva parlato Kwang-Ra.
Quando raggiungemmo l’ingresso del ponte, fummo fermati da un posto di blocco. Guardie in uniformi eleganti controllavano i documenti e interrogavano i visitatori.
«Cosa vi porta ad Arkanum?» chiese la guardia al nostro carro, un mezz’elfo dall’aria annoiata ma con occhi attenti.
«Io sono Eustach Forgialuna, mercante registrato,» rispose prontamente il nano, mostrando un medaglione ufficiale. «E questi sono i miei ospiti, venuti per partecipare al Grande Torneo.»
La guardia ci esaminò attentamente. «Avete già una squadra registrata?»
«La Compagnia del Fardello,» risposi prima che Geeno potesse lanciarsi in una spiegazione prolissa. «Non siamo ancora registrati ufficialmente.»
La guardia annuì. «Dovreste procedere al Centro Civico non appena arrivati. La registrazione chiude tra due giorni.» Ci porse dei lasciapassare temporanei. «Questi vi permetteranno di entrare in città. Non perdeteli.»
Attraversammo il ponte, e fu come entrare in un altro mondo. L’aria stessa sembrava diversa – più densa, come carica di un’energia sottile che solleticava le mie scaglie. Non era spiacevole, ma certamente strano.
«È la concentrazione di magia,» spiegò Asterion, notando il mio disagio. «Arkanum è costruita su un nexus di linee ley, correnti di energia arcana che attraversano il mondo. Qui si intersecano con particolare intensità.»
«Sì, come dici tu,» risposi, non del tutto convinto. A me sembrava solo che l’aria fosse strana.
Il carro procedette attraverso ampie strade lastricate di pietra bianca. La città era organizzata in quartieri distinti, ognuno con la propria architettura e atmosfera. Eustach ci fece da guida improvvisata:
«Quello a sinistra è il Quartiere dei Mercanti, dove si trova il Grande Mercato – c’è di tutto là dentro, dal più comune chiodo al più raro artefatto magico. A destra c’è il Quartiere della Gilda, dove si trovano tutte le corporazioni professionali. Davanti a noi, in lontananza, vedete le torri dell’Accademia? Quello è il Quartiere degli Studiosi, dove si trova anche il mio piccolo bed and breakfast.»
Più avanzavamo verso il centro della città, più la concentrazione di magia diventava evidente. Piccole luci fluttuavano nell’aria senza una fonte apparente. Edifici che sembravano sfidare le leggi della fisica si innalzavano come sculture impossibili. Creature che non avevo mai visto prima camminavano tranquillamente per le strade accanto a umani e razze più comuni.
«C’è un maledetto drago lì!» esclamai, indicando una figura alata che volava tra le torri.
«Solo un piccolo drago di rame,» commentò Asterion con nonchalance. «Probabilmente un famiglio o un assistente dell’Accademia. I draghi metallici sono generalmente amichevoli.»
«Certo, amichevoli,» borbottai. «Come se esistesse un drago amichevole.»
Il Grifone Azzurro, il bed and breakfast di Thordek, si rivelò essere un edificio a tre piani in pietra grigia con imposte blu e un’insegna raffigurante, prevedibilmente, un grifone azzurro. Era situato in una strada tranquilla del Quartiere degli Studiosi, abbastanza vicino all’Accademia da essere conveniente, ma sufficientemente lontano dal trambusto studentesco.
Thordek, il fratello di Eustach, si rivelò essere un nano dall’aspetto imponente con una barba rossa intrecciata con nastri blu e una personalità espansiva.
«Benvenuti, benvenuti!» tuonò quando scendemmo dal carro. «Mio fratello mi ha appena inviato un messaggio attraverso il suo comunicatore runato – siete i benvenuti al Grifone Azzurro!»
Ci condusse all’interno, attraverso una sala comune accogliente con un grande camino, fino a tre camere al secondo piano.
«Le migliori stanze della casa,» dichiarò con orgoglio. «E per voi, salvatori del mio sciocco fratello, il prezzo è dimezzato!»
«È molto generoso,» disse Geeno con un inchino rispettoso. «Ti ringraziamo per l’ospitalità.»
Dopo esserci sistemati e rinfrescati – devo ammettere che un bagno caldo dopo giorni di viaggio era esattamente ciò di cui avevo bisogno – ci riunimmo nella sala comune per discutere il passo successivo.
«Dobbiamo registrarci al torneo,» disse Asterion, consultando una mappa della città che aveva acquistato. «Il Centro Civico si trova nel Quartiere Centrale, non troppo lontano da qui.»
«E poi dovremmo raccogliere informazioni,» aggiunse Geeno. «Conoscere i nostri avversari, le prove che ci attendono.»
Annuii. «Sono d’accordo. Non mi piace andare in battaglia alla cieca.»
Thordek, che stava servendo idromele a un tavolo vicino, si avvicinò a noi. «Se posso permettermi, la prima cosa che dovreste fare è registrare l’incidente con i banditi presso la guardia cittadina. Il capitano Thorne si occupa della sicurezza esterna e dovrebbe essere informato di un ex-ufficiale che attacca i viaggiatori.»
Era un buon consiglio. Decidemmo di recarci prima alla guardia, poi al Centro Civico per la registrazione.
La sala della guardia si trovava nel Quartiere Centrale, un edificio imponente con un portico sostenuto da colonne di marmo. All’interno, trovammo un ambiente organizzato ma frenetico, con guardie che andavano e venivano e cittadini in attesa di essere ricevuti.
Ci indirizzarono all’ufficio del capitano Thorne, che si rivelò essere una donna umana sulla quarantina, con capelli neri striati di grigio e una cicatrice che le attraversava la guancia destra. Indossava un’uniforme impeccabile decorata con medaglie che suggerivano una carriera lunga e onorevole.
«Capitano Thorvald Thorne,» si presentò, invitandoci a sederci. «Mi dite che avete avuto un incontro con dei banditi guidati da Darreth? Interessante.»
Le raccontammo l’accaduto, e il suo volto si incupì man mano che procedevamo nel racconto.
«Darreth era un buon ufficiale, una volta,» disse quando finimmo. «Poi l’avidità ha preso il sopravvento. Ha iniziato a estorcere denaro ai mercanti, a rubare prove, a collaborare con la malavita locale. Quando lo abbiamo scoperto, è fuggito piuttosto che affrontare la giustizia.»
«E ora attacca i viaggiatori sulla strada per Arkanum,» concluse Geeno, la disapprovazione evidente nella sua voce.
«Non è il primo caso,» ammise Thorne. «Abbiamo ricevuto diversi rapporti simili nelle ultime settimane. La vostra testimonianza è preziosa, e vi ringrazio per aver consegnato i responsabili.»
Dopo aver completato i rapporti necessari, ci dirigemmo verso il Centro Civico per la registrazione al torneo. L’edificio era maestoso, con una cupola di cristallo che sembrava catturare e rifrangere la luce del sole in mille direzioni diverse.
All’interno, fummo indirizzati a un grande salone dove diverse squadre erano in attesa di registrazione. C’era un’atmosfera di eccitazione e competizione nell’aria.
Un funzionario dall’aria efficiente ci accolse al banco di registrazione. «Nome della squadra?»
«La Compagnia del Fardello,» risposi.
«Numero di membri?»
«Tre.»
«Specializzazioni?»
Ci guardammo a vicenda, poi decidemmo di rispondere a turno.
«Arti marziali e combattimento disarmato,» dissi.
«Combattimento divino e protezione,» aggiunse Geeno.
«Magia arcana e combattimento ibrido,» concluse Asterion.
Il funzionario annuì, prendendo nota. «Avete già un alloggio in città?»
«Sì, il Grifone Azzurro nel Quartiere degli Studiosi.»
«Perfetto.» Ci porse un documento da firmare. «Questo è il regolamento del torneo. Firmatelo, e sarete ufficialmente registrati.»
Prendemmo un momento per leggere il documento, che delineava le regole basilari: nessun uso letale di magia o armi durante le competizioni, squalifica immediata per chi viene sorpreso a barare, vari premi per i classificati, e ovviamente il premio principale – il finanziamento completo per una spedizione al Nuovo Mondo.
Firmammo tutti e tre, e il funzionario timbro il documento con un sigillo magico che brillò brevemente prima di dissolversi nel foglio.
«Congratulazioni,» disse il funzionario, consegnandoci tre medaglioni di bronzo con il simbolo del torneo. «Indossate questi durante tutte le competizioni. Vi danno accesso alle aree riservate ai partecipanti. Il torneo inizierà ufficialmente dopodomani con la cerimonia di apertura nella Grande Piazza. Non mancate.»
Mentre uscivamo dal Centro Civico, una figura familiare ci intercettò – Kwang-Ra, lo stravagante Tengu che ci aveva dato i token di giada a Callam.
«Ah! Le mie Tre Stelle!» esclamò, aprendo le braccia come per abbracciarci. «Sapevo che sareste arrivati sani e salvi! La Volpe me l’aveva mostrato!»
«Kwang-Ra,» lo salutai, incerto se essere irritato o divertito dalla sua apparizione. «Anche tu qui per il torneo?»
«Oh, certo, certo! Ma non come partecipante – come osservatore. Un Oracolo deve osservare, sapete? E anche come rappresentante dell’Impero di Ippon, naturalmente.»
Si avvicinò, abbassando la voce in modo cospiratorio. «Avete ancora i token che vi ho dato? Bene, bene. Teneteli vicini – potrebbero risultare utili quando meno ve lo aspettate.»
Prima che potessimo chiedergli di più, estrasse da una manica un rotolo di pergamena sigillato. «Questo è per voi – il regolamento completo del torneo, con tutti i dettagli delle prove! Non ditelo a nessuno, ma ho le mie fonti…»
Accettai il rotolo, sorpreso da questo aiuto inaspettato. «Grazie, suppongo.»
«Non ringraziatemi! Ringraziate la Volpe a Nove Code!» rispose con una risatina, poi aggiunse: «Ora, dovrei andare. Ma ci rivedremo alla cerimonia di benvenuto, questa sera nella Grande Piazza. Non mancate!»
E con questo, si allontanò rapidamente, mescolandosi alla folla con sorprendente agilità per un anziano.
Guardai Geeno e Asterion, che sembravano altrettanto perplessi dalla breve interazione.
«Quel corvo è completamente pazzo,» dissi infine, «ma sembrava sincero nel volerci aiutare.»
«La pazzia e la saggezza divinatoria spesso camminano mano nella mano,» commentò Asterion. «Potrebbe essere genuinamente in grado di vedere frammenti del futuro.»
«O potrebbe semplicemente essere bravo a raccogliere informazioni,» disse Geeno pragmaticamente. «In ogni caso, questo regolamento potrebbe darci un vantaggio.»
Concordammo di tornare al Grifone Azzurro per studiare attentamente il regolamento e prepararci per la cerimonia serale. Mentre camminavamo per le strade di Arkanum, non potei fare a meno di sentire una crescente eccitazione. Questa città, con tutta la sua magia e stranezza, era l’inizio di qualcosa di grande.
La Compagnia del Fardello stava per mettersi alla prova. E io non vedevo l’ora di mostrare a tutti cos’era capace di fare un vero Cobra.