L’aria nelle paludi a meridione di Casilia era spessa e immobile, un velo intriso dell’odore acre di acqua stagnante, vegetazione in decomposizione e un sottile, inquietante sentore di qualcosa di sbagliato – la firma inconfondibile della magia necromantica. Alberi contorti, ammantati di muschi grigiastri che pendevano come sudari, si specchiavano cupamente nelle pozze d’acqua nera. La luce del sole faticava a penetrare la fitta canopea e i banchi di nebbia strisciante, gettando sulla scena una luce fioca e malaticcia, color ocra e viola. Era una terra di confine dimenticata, a sud delle terre civilizzate di Solastra, non lontano da dove, anni prima, l’eco della rivoluzione si era mescolato ai canti di guerra degli orchi.
Il Generale Iulius Sol Venitas procedeva con la cautela di chi conosce il proprio nemico. La sua armatura, argento e oro un tempo splendenti, era ora macchiata dal fango scuro della palude, testimonianza silenziosa del difficile percorso. Non era l’incerto giovane principe che era stato; il comando e la battaglia lo avevano temprato, ma il peso del suo passato—l’essere stato inconsapevole tramite di un Eikon, la manipolazione subita—era inciso nei suoi occhi blu intenso, un’eredità tanto divina quanto dolorosa. La mano destra, salda, non si allontanava dall’elsa di Furaiken. L’Armamento dei Prescelti, ereditato da suo padre Vergil, pulsava debolmente contro il suo fianco, una fredda presenza di potere sacro in quel luogo profanato. Non era solo, ma i suoi uomini, veterani fidati della Guardia Repubblicana, erano posizionati strategicamente, invisibili tra gli alberi contorti, pronti ma consapevoli che questo scontro era personale.
Le tracce li avevano condotti lì. Non impronte, ma ferite nel tessuto stesso della vita: aree dove la vegetazione marciva a velocità innaturale, creature mutate che attaccavano con ferocia cieca, incubi che infestavano i villaggi vicini. Segni inequivocabili della presenza crescente del Lich Putin, l’essere che aveva giocato un ruolo così ambiguo e terrificante nella sua stessa vita e nella caduta dello zio Regis.
Finalmente, lo trovarono. In una radura più ampia, dove il fango ribolliva pigramente attorno a un’isola di terra rialzata—un ammasso grottesco di radici, fango indurito e ossa—sedeva la figura scheletrica. Il Lich Putin. Sembrava… più solido dell’ombra che Iulius ricordava. Gli stracci neri che lo avvolgevano vorticavano pigramente, nonostante l’assenza di vento, e l’aura di freddo e potere necromantico era quasi soffocante. Le fiamme blu spettrali nelle orbite cave ardevano con una concentrazione malevola. Stava chiaramente recuperando forza, attingendo alla corruzione intrinseca di quel luogo dimenticato.
«Generale Sol Venitas» — la voce era un orribile raschiare di pietra su pietra, eppure portava una nota di trionfo oscuro — «Sei venuto così lontano per testimoniare la mia rinascita? O forse per implorare il ritorno del potere che ti fu così… gentilmente rimosso?». Il riferimento a Metatron era inconfondibile, un velenoso promemoria della manipolazione passata.
Iulius non si lasciò provocare. Estrasse Furaiken. La lama brillò intensamente, la luce bianco-azzurra che scacciò le ombre immediate e fece sibilare l’aria corrotta. L’energia divina dell’arma era un affronto diretto all’essenza del lich.
«Putin» — la voce del generale era controllata, fredda come il ghiaccio, ma sotto vi ardeva una giusta furia — «Le tue manipolazioni sono finite. La tua esistenza contamina questo mondo. Sono qui per porvi fine».
Il lich rise, un suono secco, privo di gioia, come ossa rotte. «Finirmi? Tu? Che fosti poco più di un guscio per un potere che non comprendevi? Io ho visto cadere imperi, Sol Venitas. Tu sei solo l’ultimo di una linea destinata a fallire». Sollevò una mano scheletrica. Il terreno attorno a Iulius tremò, e dalle acque nere emersero mani ossute e figure vagamente umanoidi fatte di fango e radici marce.
Iulius non attese. Sapeva che affrontare Putin direttamente era l’unica via. Con un grido di battaglia che onorava il sacrificio di El-Shaddai e la memoria di suo padre, caricò. Furaiken tracciò un arco di luce pura, dissolvendo i costrutti di fango prima che potessero completamente formarsi.
Lo scontro fu un turbine di luce divina contro oscurità antica. Putin non era solo un potente necromante; era un maestro della corruzione, che usava l’ambiente stesso come un’estensione della sua volontà. Viti strangolatrici eruppero dal terreno, gas velenosi si levarono dalle pozze, illusioni di amici caduti cercarono di distrarre Iulius. Ma il generale combatteva con la disciplina appresa e la forza del suo retaggio. Furaiken non era solo acciaio benedetto; era un’estensione della sua anima, un’arma forgiata per giudicare e purificare. Ogni parata dissipava ombre, ogni affondo portava con sé la promessa della luce.
Tuttavia, Iulius sentiva il lich adattarsi, imparare. Gli attacchi necromantici diventavano più sottili, più insidiosi. Tentacoli d’ombra cercavano di avvolgere Furaiken, di smorzare la sua luce. Putin stava cercando di tagliare il suo legame con l’Armamento.
Fu allora che Iulius comprese. Non poteva sconfiggere Putin solo con la forza o la luce. Doveva usare la verità dell’arma. Furaiken era stata creata per contrastare l’oscurità, ma forse il suo vero potere risiedeva nella sua capacità di rivelare, di tagliare via l’inganno. Putin era un essere frammentato, tenuto insieme da pura volontà e magia oscura. La sua forza era anche la sua debolezza.
Ignorando un dolore lancinante alla spalla dove un artiglio d’ombra era riuscito a passare, Iulius piantò i piedi. Sollevò Furaiken sopra la testa, non come per colpire, ma come un faro. Chiuse gli occhi e si concentrò, non sulla distruzione, ma sulla separazione. Sull’essenza divisa del lich. Riversò tutta la sua volontà, tutto il suo retaggio, nell’arma, pregando che l’intento originale dei suoi creatori si manifestasse.
Furaiken rispose. La luce divenne quasi insostenibile, non solo bianca e azzurra, ma iridescente, come se contenesse tutti i colori dello spettro. La lama vibrò con una frequenza acuta, un suono che sembrava separare la realtà stessa.
Quando Iulius aprì gli occhi, vide Putin vacillare, le fiamme nelle sue orbite che tremolavano violentemente. L’aura necromantica attorno a lui si stava… sfilacciando.
Con un ultimo, disperato sforzo, Iulius affondò il colpo. Mirò non a un punto fisico, ma all’essenza stessa del legame che teneva insieme quella forma corrotta.
La punta di Furaiken colpì il centro della figura del lich. Ci fu un istante di silenzio assoluto, seguito non da un’esplosione, ma da un suono lacerante, come mille specchi che andavano in frantumi contemporaneamente.
La forma di Putin fu attraversata da linee di pura luce bianca. Non era un attacco, era una dissezione arcana. Il lich urlò, un suono di agonia e rabbia impotente che fece tremare la palude.
«Il frammento… non può… essere distrutto… qui…» rantolò, mentre pezzi della sua forma iniziavano a staccarsi e dissolversi in polvere nera. «Ma tu… hai lasciato… un segno…».
Con un ultimo spasmo, la figura del Lich Putin implose verso l’interno, lasciando dietro di sé solo un vuoto nell’aria che odorava di ozono e polvere antica. Il buco nel petto, la ferita inflitta da Furaiken, fu l’ultima cosa a svanire.
Iulius Sol Venitas cadde in ginocchio nel fango, esausto, il potere di Furaiken che si ritirava lentamente, lasciandolo svuotato ma vittorioso. Aveva affrontato il suo passato, aveva ferito gravemente l’essere che lo aveva manipolato. Ma le ultime parole del lich risuonavano come un presagio oscuro. Putin non era distrutto. E ora, in qualche modo, Iulius sentiva di aver lasciato un segno su di lui, un legame indesiderato forgiato nel fuoco della battaglia. La vittoria aveva un sapore amaro, come l’acqua stagnante della palude.