Il fumo nella sala comune de “La Lucertola Sbronza” era denso quasi quanto il mio famigerato succo di rapa fermentato. Un giovedì sera qualunque ad Alben Sol, con il solito coro stonato di mercenari che annegavano i dispiaceri (o festeggiavano i guadagni) e gladiatori che si vantavano di cicatrici ancora fresche. Dal mio santuario unto di grasso dietro il bancone della cucina, io, Shen Zan, osservavo la fauna locale. Un tempo recitavo sutra dimenticati, ora elencavo le specialità del giorno. Ironico, come la vita ti marini in modi inaspettati. Ma l’osservazione era rimasta. E l’ascolto. Abilità utili, specie quando si ha un accordo discreto con un certo Sandro von Teles e la sua nascente Gilda.
«Vecchio Shen! Due porzioni del tuo Stufato del Gladiatore, extra piccante! E manda giù un altro giro di quella tua… acqua viola!» La voce apparteneva a Borin il Grosso, un energumeno che aveva perso più incontri nell’arena di quanti denti gli fossero rimasti.
«Pazienza, Borin, pazienza! La buona cucina richiede tempo, come un buon livido per maturare,» replicai, mentre con maestria facevo saltare pezzi di bestia cornuta in una padella annerita. Ma i miei occhi erano già stati catturati da un nuovo tavolo, occupato da poco nell’angolo meno illuminato. Tre figure. Tre note stonate in una melodia altrimenti prevedibile.
Erano arrivati separatamente, ma si erano seduti insieme, attratti forse dallo stesso avviso unto affisso sulla bacheca vicino all’ingresso – quello che prometteva “Gloria e Ricompensa” per chi avesse ripulito le vecchie rovine naniche sui contrafforti di Monte Cavato dai coboldi dalle scaglie rugginose. Un lavoro sporco, poco remunerativo, buono solo per novellini disperati o folli. A giudicare dal loro aspetto, potevano essere entrambe le cose.
C’era un orco. Enorme, ovviamente, ma non grezzo. La sua pelle verde era tesa su muscoli nodosi, e le cicatrici sul suo volto sembravano più segni di battaglie combattute con disciplina che risse da taverna. Teneva le mani grandi e callose posate sul tavolo, immobili, ma i suoi occhi scuri si muovevano, lenti e attenti, valutando la stanza. Sembrava un macigno pronto a rotolare.
Poi, l’umano. Giovane, forse vent’anni. Capelli biondi tagliati corti, un viso che sarebbe stato bello se non fosse stato per un’espressione perennemente irrequieta e un mezzo ghigno stampato sulle labbra. Indossava un’armatura di cuoio borchiato di buona fattura, ma sembrava più a suo agio nel provocarla che nel mantenerla. Tamburellava le dita sul legno, lo sguardo che saettava tra l’orco e il terzo compagno. Emanava l’energia nervosa di un puledro non ancora domato. Una testa calda, senza dubbio.
E infine, seduto dritto come un fuso nonostante la bassa statura, c’era uno gnomo. Abiti semplici, color terra, ma tagliati con una precisione quasi innaturale. Non aveva l’aria sognante di molti gnomi; i suoi occhi scuri erano acuti, analitici, e si soffermavano sui dettagli con una concentrazione quasi inquietante. Teneva un piccolo taccuino e uno stilo davanti a sé, anche se non scriveva ancora. Sembrava un medico che studia i sintomi di una malattia sconosciuta.
Kiri, la mia svelta cameriera, si avvicinò al loro tavolo con la solita efficienza. La vidi prendere gli ordini, il suo sopracciglio che si alzava leggermente un paio di volte. Tornò in cucina.
«Allora, Vecchio Shen, preparati,» mi disse, passandomi la comanda. «L’orco: doppio arrosto di cinghiale delle rocce, al sangue. Ha detto: “Non lo cuocere troppo, altrimenti perde il sapore della lotta”.» Fece una pausa. «L’umano: la tua specialità. Succo di rapa fermentato. Una pinta grande. Ha aggiunto: “Se non mi fa vedere gli antenati, voglio indietro i soldi”.» Alzò gli occhi al cielo. «E lo gnomo…» Consultò i suoi appunti. «Acqua. Sorgiva. Non di fiume. Portata a ebollizione una sola volta. Raffreddata naturalmente. Servita in una tazza di legno di salice piangente, non laccata. E un piatto di radici crude assortite, non lavate ma spazzolate.»
Scossi la testa, un sorriso che mi tirava gli angoli della bocca. Che strano miscuglio. Forza bruta, sfrontatezza impulsiva e precisione quasi folle. Che tipo di avventura pensavano di intraprendere con una combinazione del genere?
Mentre preparavo i piatti – selezionando con cura le radici per lo gnomo, assicurandomi che l’arrosto dell’orco fosse praticamente crudo al centro, e versando con un gesto quasi cerimoniale la pinta del mio succo di rapa viola per l’umano (sperando che la sua spavalderia superasse il sapore) – tesi le orecchie.
«Quindi,» stava dicendo l’umano, Vis, rivolto all’orco. «Tu sei Hurk. Il nome ti si addice. Dicono che nell’arena di Alben Sol rompi le ossa come fuscelli.»
L’orco, Hurk, grugnì un monosillabo che poteva essere un assenso.
«E tu sei Phe Ne,» continuò Vis, girandosi verso lo gnomo. «L’annuncio diceva “cercasi mente analitica e conoscenza della flora sotterranea”. Sembri… analitico.» C’era una nota di scherno nella sua voce.
Phe Ne non reagì alla provocazione. «La precisione è essenziale per la sopravvivenza, umano,» replicò lo gnomo, la voce sorprendentemente ferma e chiara. «Qualcosa che tu, a giudicare dal modo in cui maneggi quel boccale, devi ancora comprendere.»
Vis rise, una risata troppo forte. «Mi piace il rischio. E questo succo sembra un rischio delizioso.» Ne bevve un lungo sorso, senza battere ciglio. Impressionante, o incredibilmente stupido, pensai.
«Le rovine naniche sono pericolose,» intervenne Hurk, la voce un basso brontolio. «Coboldi. Trappole. Forse peggio.»
«È per questo che siamo qui, no?» disse Vis, un lampo negli occhi. «Pericolo, gloria, e magari qualche tesoro dimenticato.»
«E per la documentazione accurata dei meccanismi nanici e della fauna cavernicola,» aggiunse Phe Ne, quasi tra sé.
Decisi di portare io stesso l’acqua e le radici allo gnomo. Mi avvicinai, adottando la mia migliore espressione da vecchio oste innocuo. «Ecco a voi, messere. Radici fresche e acqua come richiesto.»
Gli occhi di Phe Ne mi squadrarono dalla testa ai piedi in una frazione di secondo. Non era uno sguardo ostile, ma era… completo. Come se stesse catalogando ogni mia ruga, ogni macchia sul mio grembiule. «Vi ringrazio, Mastro Cuoco,» disse, con un cenno formale. «La vostra attenzione al dettaglio è… notevole.»
Tornai dietro il bancone, sentendo il suo sguardo ancora sulla mia schiena. Questo trio era più di quanto sembrasse. Non erano solo avventurieri in cerca di un lavoro facile. Erano ingredienti crudi, potenti, che messi insieme potevano creare qualcosa di esplosivo. O semplicemente un disastro indigesto.
Vis, Hurk, Phe Ne. Me li segnai mentalmente. Sandro avrebbe voluto sapere di loro. Avevo la sensazione che, nel bene o nel male, avrei sentito parlare ancora di questa strana compagnia. La pentola di Vaskaras stava iniziando a bollire.