Protagonista: Kenzo, Samurai Hungerseed, Guardia Personale dello Shogun Kwang-Ra.
Kenzo odiava la folla. Non per paura, ma per fastidio. Troppi odori mescolati – pesce salato, incenso dolciastro, sudore, profumi costosi, la polvere onnipresente di Narakarasu. Troppi rumori – il chiacchiericcio incessante in mille dialetti, lo stridere dei gabbiani, il clangore delle forge lontane, il battere ritmico dei tamburi che annunciavano l’arrivo dello Shogun. E soprattutto, troppi sguardi.
Anche qui, nel cortile interno del Tempio delle Mille Piume, dove l’aria era più rarefatta e permeata dalla calma degli spiriti ancestrali, sentiva gli occhi su di sé. Sguardi curiosi dai mercanti elfici in visita, sguardi sospettosi dalle guardie tengu regolari, sguardi apertamente ostili da alcuni membri dei clan minori che mal sopportavano la sua presenza così vicina allo Shogun.
Li ignorò, come aveva imparato a fare. Era difficile non notarlo, lo sapeva. Alto quasi due metri, con una muscolatura massiccia che tendeva il suo kimono da samurai color indaco scuro, era già una figura imponente. Ma erano gli altri dettagli a fermare i sussurri e ad attirare gli sguardi fissi: la sua pelle, non di una normale tonalità umana o tengu, ma di un profondo rosso mattone, come terracotta antica; le due corte corna nere che spuntavano dalla sua fronte ampia, lucidate come ossidiana; e l’occhio. Il terzo occhio, chiuso al centro della fronte, una linea sottile leggermente più scura della sua pelle, quasi invisibile finché non si apriva, rivelando un’iride dorata e priva di pupilla che sembrava vedere oltre il velo delle cose. Un Hungerseed. Un mezz’oni. Un discendente di quelle creature demoniache che, secondo le leggende, un tempo infestavano le isole prima dell’ascesa dei grandi eroi tengu.
Era un paradosso vivente: un essere con sangue oni al servizio diretto dello Shogun Kwang-Ra, l’oracolo vivente, il pacificatore di Narakarasu. Era stato Kwang-Ra stesso a trovarlo, anni prima, un giovane esiliato e temuto, che combatteva per sopravvivere nel Mercato delle Ombre. Lo Shogun, con la sua saggezza che trascendeva le apparenze, non aveva visto un demone, ma un guerriero dalla forza prodigiosa e un’anima combattuta, legata a un codice d’onore ferreo autoimposto. Lo aveva preso sotto la sua ala, addestrandolo non solo nelle arti marziali, ma anche nella disciplina mentale e spirituale necessaria a controllare la sua eredità.
Kenzo ora era parte della guardia personale dello Shogun, un ruolo che svolgeva con silenziosa, letale efficienza. La sua arma, appoggiata con discrezione al fianco, non era una katana, ma una kusarigama. Una falce dall’aspetto brutale collegata a una lunga catena terminante con un pesante peso metallico. Un’arma da contadino, secondo alcuni, ma nelle sue mani diventava un’estensione imprevedibile e mortale della sua volontà.
Lo Shogun Kwang-Ra stava terminando le sue preghiere mattutine davanti all’altare principale, la sua figura anziana e piumata (le sue piume erano quasi completamente bianche ormai) che emanava una calma quasi irreale. Era un giorno importante. Lo Shogun aveva annunciato la sua intenzione di intraprendere un lungo viaggio verso ovest, verso le terre scoperte di recente, forse fino alla leggendaria città magica di Arkanum, per “comprendere i nuovi venti che soffiano sul mondo”. Una decisione che aveva suscitato mormorii e preoccupazioni tra i clan.
Kenzo percepì il cambiamento un istante prima che accadesse. Non fu un suono, non fu un movimento. Fu una distorsione. Il suo terzo occhio si aprì di scatto, l’iride dorata che si dilatava. Vide le sottili linee di intento omicida nell’aria, filamenti scuri che convergevano sullo Shogun da tre direzioni diverse nel cortile apparentemente tranquillo.
“Shogun!” Il suo grido fu un ruggito gutturale, mentre scattava in avanti, la kusarigama già in mano.
Il caos esplose. Tre figure emersero dalle ombre del porticato – tengu, ma vestiti di nero aderente, i loro volti nascosti da maschere da corvo senza espressione. Si muovevano con una velocità e un silenzio innaturali. Assassini. Probabilmente dei Corvi Neri, il clan mercenario che Kwang-Ra aveva sconfitto anni prima.
Kenzo intercettò il primo, la falce della sua kusarigama che strideva contro il tantō nero dell’assassino. Contemporaneamente, con un movimento fluido del polso, fece roteare la catena, il peso metallico che sibilava nell’aria. Il secondo assassino, che stava per colpire lo Shogun alla schiena, fu costretto a indietreggiare per evitare di farsi frantumare il cranio.
Il terzo assassino ignorò Kenzo, concentrato solo sull’anziano Shogun. Ma Kwang-Ra, nonostante l’età, non era indifeso. Con un movimento quasi impercettibile, tracciò un simbolo nell’aria. L’assassino inciampò, come se il terreno sotto di lui fosse diventato improvvisamente instabile.
Kenzo approfittò dell’esitazione. Spinse via il primo assassino con una spallata che lo fece volare contro una colonna, poi ritrasse la catena con uno strattone e la lanciò di nuovo. Questa volta, avvolse le gambe del terzo assassino, quello che aveva inciampato. Uno strattone violento lo fece cadere a terra.
Il secondo assassino tornò all’attacco, puntando alla gola di Kenzo con il suo tantō. Kenzo lasciò andare la catena, usò l’asta della falce per deviare la lama e colpì con la parte posteriore della falce stessa, un colpo non letale ma devastante al fianco dell’assassino, che crollò a terra senza fiato.
Il primo assassino si rialzò, ignorando il dolore, e si lanciò di nuovo su Kenzo. Questa volta, Kenzo non deviò. Lasciò che la lama corta affondasse superficialmente nella sua spalla massiccia – un dolore acuto ma familiare – e chiuse la mano libera attorno al polso dell’assassino con una forza schiacciante. Si udì un crack disgustoso. L’assassino urlò, lasciando cadere l’arma.
In quel momento, le altre guardie dello Shogun, finalmente reattive, circondarono gli assassini superstiti, le loro lance puntate.
Kenzo si ritrasse, ignorando il sangue che iniziava a macchiare il suo kimono. Si inginocchiò su un ginocchio davanti allo Shogun, che lo osservava con i suoi occhi antichi e indecifrabili. Il terzo occhio sulla fronte di Kenzo si chiuse lentamente.
“Ben fatto, Vento Rosso,” disse Kwang-Ra, la sua voce calma come sempre, anche se forse un po’ più stanca. “Sembra che i Corvi Neri non abbiano dimenticato il loro rancore.”
“Sono vivi, Shogun,” disse Kenzo, la voce roca. “Per l’interrogatorio.”
Kwang-Ra annuì. “Saggio. La violenza genera solo altra violenza, ma la conoscenza… la conoscenza può fermare la tempesta prima che inizi.” Si avvicinò a Kenzo, posando una mano rugosa e piumata sulla sua spalla ferita. Un leggero calore fluì nella ferita, alleviando il dolore. “Questo,” disse lo Shogun, guardando verso ovest, oltre le mura del tempio, “conferma solo la necessità del mio viaggio. Le ombre si stanno allungando su tutto Vaskaras. Dobbiamo capire.”
Guardò di nuovo Kenzo. “Verrai con me, Vento Rosso. La tua forza e la tua percezione unica saranno necessarie. Preparati. Partiremo con la prossima marea favorevole. La nave Ala di Corvo ci attende.”
Kenzo alzò lo sguardo, incontrando quello dello Shogun. C’era preoccupazione negli occhi dell’anziano oracolo, ma anche una scintilla di determinazione. Arkanum. Un viaggio verso l’ignoto, verso il cuore delle terre umane e della loro strana magia. Sarebbe stato pericoloso. Sarebbe stato difficile. Ma era un ordine dello Shogun. Ed era una via d’uscita dal soffocante cortile del tempio.
Si alzò, ignorando il dolore alla spalla. “Come desiderate, Shogun. Sarò pronto.”
Prese la sua kusarigama da terra, la catena che tintinnava sommessamente. Il vento frusciava tra le mille piume appese agli alberi del tempio, portando echi di un mondo vasto e pieno di pericoli. Kenzo sentì il suo sangue oni cantare piano nelle vene, non di rabbia, ma di anticipazione. La tempesta stava arrivando, e lui avrebbe navigato al fianco del suo maestro.